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sabato 12 febbraio 2022

Bisogna avere il coraggio di essere fragili

Ho lasciato che le mie piante ed i miei fiori appassissero.

L’ho fatto di nuovo, solo che questa volta ho deciso di prendermi del tempo prima di rimpiazzarle.

Le posiziono sempre in vari angoli della casa. Alcune su di un mobile accanto alla finestra, per far sí che l’aria fresca e qualche raggio di sole possa tenerle in vita. Le innaffio, non quotidianamente, ma quanto basta, affinché non si dimentichino di avere qualcuno che si prenda cura di loro. 

Oggi le guardavo appassire, e ho pensato che fosse troppo tardi per recuperarle. Non ne avevo voglia, senza avvertire alcun tipo di pentimento. 

E ho pensato anche a quanto tutto questo rappresentasse in pieno come mi sento.

Ho lasciato che le vicissitudini mi assorbissero al punto da pensare di non avere più tempo per me, per scrivere, per inventare, per fare, insomma, tutte quelle cose che mi hanno sempre fatto sentire viva. 

Ho lasciato che certe cose appassissero e ho avuto paura di gettarle via. 

Le ho posizionate altrove, sperando che nascondendole tra i mostri che ognuno si porta dentro, me compresa, si facessero compagnia senza fare troppo rumore, né esigere mai il palcoscenico. 

Ho continuato a prendermene cura, innaffiandole, forse più del dovuto, pensando sempre che a me spettasse questo ruolo di quella che c’è sempre, a qualunque costo, e per chiunque. Quella che davanti a qualcosa o qualcuno che ti svuota, accenna un sorriso di circostanza e va avanti, immaginando che quel vuoto possa colmarsi da solo, o magari, sia solo frutto di decisioni sbagliate, di castelli di sabbia destinati a sgretolarsi, di pensieri che non poggiano su convinzioni reali. 

Ho sempre creduto che fossero le mie piante ad avere bisogno di me.

Mi affannavo pur di non lasciarle morire, per quel senso di responsabilità che mi cucio addosso ogni volta, facendo sí che mi caschi a pennello.

Poi ho letto da qualche parte che bisogna avere il coraggio di essere fragili. 

Mi sono chiesta cosa significasse e se stessi mostrando, a me stessa, di averlo questo coraggio.

Ho pensato che il modo migliore che avessi per dimostrarlo, a me stessa, fosse mettere tutto nero su bianco e lasciarmi andare, come l’acqua che scorre e che anche di fronte ad un ostacolo trova sempre una via alternativa per non arrestare il suo flusso.

Ho scritto meno perché scrivere per me ha sempre significato dare forma alle proprie fragilità.

Dar loro un volto dai tratti angelici, a volte spigolosi. Disegnarne i corpi, associarle ad un profumo, ad una canzone come fosse una preghiera che la mente, da sola, non smette di recitare. Dar loro un nome, come fosse un’etichetta per riconoscerle tra tante.

“Bisogna avere il coraggio di essere fragili,” – l’ho letto e riletto mille volte.

“E non fa niente se diamo a tanti l’illusione del bersaglio facile, se mostriamo quella crepa che gli altri possono allargare,” – il testo continuava. 

Così, tra una pausa e l’altra, ho capito che io questo coraggio ce l’ho, l’ho sempre avuto, non l’ho mai nascosto. Tutto quello che ho fatto è stato semplicemente adattarmi ad un ambiente in cui mostrarsi fragili equivale all’essere deboli, farsi trovare in affanno significa disordine, mostrare una crepa significa diventare un bersaglio facile. 

Invece io ho proprio bisogno di sentirmi fragile.

Di entrare in contatto con tutte le mie debolezze, prenderle per mano e andarci a fare una passeggiata. 

Ho bisogno di mostrare le crepe, tutte quelle che ho, perché me le sono conquistate e mi permettono di essere quella che sono. 

Le crepe sono storie da raccontare, con un finale ancora da scrivere, o a cui si è già messo un punto. Sono un apostrofo, tra una consonante e una vocale, che unisce tasselli che non avrebbero trovato altro modo per proseguire. Mi piacciono per quella loro innata propensione ad unire e lasciare, allo stesso tempo, la libertà di decidere se fare un salto nel vuoto, o salire sul ponte. Mi piacciono perché sono libere, autentiche, senza menzogne, né ambiguità. 

Ho sempre provato una sorta di reticenza nel farmi trovare in disordine, in debito d’ossigeno, in fuorigioco, in ritardo rispetto certi ritmi, lontana dalla gente, dai miei porti sicuri, persa.

La stessa reticenza l’ho trasmessa alle mie piante. Non mi sono mai arresa. 

Però oggi osservarle mi ha fatto capire di quanto fossi io ad avere bisogno di vederle appassire per capire che per quanto la fatica non ci lasci dormire, bisogna accettare che certi ambienti non sono fatti per lasciarci sbocciare. Bisogna comprendere che non tutto ció che accade è a noi destinato, ma che talvolta si tratti di ponti che ci aiutano a traghettarci al versante opposto da quello in cui ci troviamo. 

Comprerò nuove piante, ma questa volta diverse.

Mi prenderò del tempo, per prendermi cura delle mie crepe, non solo di quelle degli altri.

Mi prenderò del tempo per capire a chi destinarle, perché gli unici destinatari meritevoli sono quelli che a vederle non avvertono alcun disagio. Sono quelli che ti prendono per mano, e insieme alle tue crepe, ti portano a vedere il mare. Sono quelli che in questo coraggio vedono forza. Quelli che se sei in affanno, rallentano, insieme a te. Quelli che se sei in disordine, ti invitano a sederti perché a mettere un po’ di ordine ci pensano loro. Quelli per cui non sarai mai un bersaglio facile, ma una conquista inaspettata, perché in quegli occhi si rivedono più umani. 

Tutto il resto non conta. Sono piante destinate ad appassire.

Non c’è bisogno di alcun cenno di pentimento.

Lo sapevano già anche loro. Non le avresti mai salvate da loro stesse.

Possiamo salvare solo noi stessi, ma ci vuole coraggio. Quello di essere fragili. 


martedì 9 novembre 2021

Alle 8:40


Alle 8:40, dal lunedì al venerdì, prendo la mia consueta corsa in metro, sempre di fretta. Fino a poco tempo fa, avevo imparato ad anticiparmi ma lo sapevo già che non sarebbe durata, la calma non è mai stata il mio forte.

L'altro giorno però sono riuscita a perdere anche quella che chiamo "la-corsa-di-emergenza", l'ultima fattibile, quella che parte alle 8:45 e mi porta a destinazione in poco meno di 9 minuti, così da riuscire a cronometrare il passo e arrivare ad aprire la porta dell'ufficio alle 8:59 - con l'acido lattico che fa ancora su e giù all'altezza delle cosce. Dall'uscio di casa a quello dell'ufficio, trascorrono trenta minuti, in cui ciascuno è pianificato con una cura quasi maniacale. In cui qualsiasi intoppo, è gestibile - mi dico - ma meglio che non accada - mi ripeto. È forse l'unico momento della giornata in cui riesco a pianificare qualcosa. 

L'altro giorno, però, non ce l'ho fatta. Mentre scendevo di corsa le scale, sono stata quasi inghiottita da un'orda di persone che in direzione opposta alla mia, non accennavano a scansarsi nemmeno di qualche centimetro. Quelli saranno stati momenti preziosi anche per loro.

Solo che ogni volta, penso sempre di riuscire a destreggiarmi. Trovo un piccolo spazio e mi ci infilo. Li scanso, senza nemmeno a volte sfiorarli, e riesco ad uscirne, tirando un sospiro di sollievo quando le porte scorrevoli si chiudono alle mie spalle, perché arriverò nei tempi giusti. 

Pochi giorni fa, invece, mi sono sentita quasi bloccata nello scegliere da parte andare. Ho fatto fatica a schiacciarmi tra la folla, come se stessi remando in direzione opposta alle onde. Ho decelerato. Ho seguito il ritmo che sentivo, e sono arrivata tardi. Capita. Questa volta però non mi sono sentita in colpa, e mi sono detta che, in fondo, non sono mai stata una pianificatrice esemplare, però potrei imparare a diventarlo a modo mio.

Così mi sono resa conto che quelli che chiamo intoppi, sono la parte più divertente del piano. Perché ti insegnano a trovare soluzioni e a gestire cose o persone che come schegge impazzite occupano uno spazio che avevi considerato fosse libero, ma che invece si trasforma in un ingorgo. Mi sono resa conto di essere piccola quanto basta per destreggiarmi con cura tra la folla, ma anche grande, abbastanza, da prendere quelli che considero i miei tempi e i miei spazi. Il che significa fermarsi, aspettare, decelerare. Ho capito che nessuna corsa ti farà mai arrivare nei tempi giusti, perché sono giusti quelli che senti. Non un minuto prima, né uno successivo. E che spetta a noi decidere quale sia l'ultima corsa. Ne seguirà sempre una, poi un'altra, ed un'altra ancora, su cui poter salire ascoltando i nostri bisogni prima della voce che dall'altoparlante ne annuncia il transito. Con il nostro passo, seguendo i nostri ritmi.
E va bene se le cose saranno diverse da come le avevamo pianificate.
Domani possiamo riprovarci.

Chiudi gli occhi, mia cara, e non aver paura. Andrà tutto bene.


lunedì 21 dicembre 2020

Spezzare

Una persona che stimo, perché sempre sfacciatamente sincera pur mantenendo una postura elegante e garbo nei modi, mi ha detto una volta che spezzare di tanto in tanto fa bene.
Equivale al farsi sentire, a selezionare solo ciò che ci fa sentire appagati, al volersi bene, a non aver timore della solitudine, perché in fondo conservare rami già spezzati non sortirebbe alcun effetto benefico, allora meglio disfarsene. 
Poi, quasi come fosse un rimprovero materno, mi ha chiesto cosa mi porti a non riuscire a spezzare, rompere, tagliare, anche quando qualcun altro ridurrebbe il tutto ad una poltiglia senza forma.
Capire se sia possibile ricucire lo strappo, risanare la ferita, riordinare, rimettere a posto le cose, le ho risposto. 
Concedere seconde possibilità, a me stessa di accogliere nonostante tutto, agli altri di riprovarci, ho pensato senza fiatare.

Sino ad allora se qualcuno vi avesse chiesto di spezzare qualcosa, avrei pensato ad una tavoletta di cioccolato su cui affondare i denti mentre mi convinco che sia un'altra di quelle serate nostalgiche e quindi di meritare qualche coccola in più.

Non ho mai dubitato che questo modo di rimettere insieme le cose, anche quando sarebbe più semplice gettarle tutte al vento, mi togliesse qualcosa. Molte volte mi ha arricchito. 
Tuttavia, solo dopo ho compreso cosa intendesse con il termine spezzare.
Comportarsi non come animali feroci, che schivano con brutalità possibili avversari in vista di una preda da azzannare, ma come esseri umani premurosi, che per amor proprio decidono quando sia opportuno adottare le dovute distanze e con la stessa compostezza quando sia necessario assottigliarle, solo quando ne valga veramente la pena. O il contrario: allungare le distanze quando certe presenze appaiano ingombranti, deleterie, rumorose, come quelle che sovrastano la nostra voce o la accantonano, quelle che non apportano alcun contributo positivo e che nonostante appaiano lì in realtà non ci sono, perché sono come luci di un interruttore danneggiato che a poco a poco ci spengono. 

Così ho capito che il termine spezzare può avere una serie di accezioni positive.
Significa prendere parola, posto, spazio, ciò di cui si ha bisogno.
Significa innaffiare nuovi semi per far crescere nuovi germogli.
Significa sbarazzarsi del superfluo, di ciò che è rotto e non può più essere riparato.
Significa ripulire, piantare, fiorire, amare e amarsi, ogni giorno con la stessa costanza.
Significa non aver paura di ferire perché si concede alla nostra voce la giusta importanza.
Significa non temere di restare soli, perché non lo saremo mai solo quando selezioneremo con cura il terreno da innaffiare. In tutti gli altri casi, lo saremo già stati pur non accorgendocene. 
Non significa che cresceranno nuove rose lì dove sono appassite, ma equivale a provarci.

Mi piace la parola spezzare, perché sembra racchiudi un suono assordante e invece poi tanto rumore non fa. È lieve, come un petalo che cade da una margherita, ma deciso, come gocce di pioggia sui vetri.
Mi piace perché lascia presagire qualcosa di violento e inaspettato, come un temporale estivo, e invece poi nel suo corso si calma, lasciando spazio a tutto quello che altrimenti non avremmo mai visto.
Mi piace perché è in grado di essere brutale nella forma, ma dolce nella sostanza.
Mi piace perché significa, in fondo, prendersi cura di se stessi.
Per questo alla fine l'ho promesso, che di tanto in tanto avrei spezzato, il che non significa distruggere o chiudere porte in faccia, al contrario equivale a mettere a posto le cose, lì dove sarebbero dovute restare sin dal principio.
È questo il mio proposito per il nuovo anno: trovare il coraggio di spezzare e la costanza di ricostruire ogni volta. E che non sia solo cioccolato.


sabato 14 novembre 2020

Gettarsi nel mondo

Ci sono delle date che ho scelto di cucirmi addosso, altre che di tanto in tanto chiedono solo di essere ricordate. Alcune bussano alla mia porta con fare delicato, altre con pugni decisi e costanti. A volte alcune somigliano al trillo di un campanello, altre ancora al suono sordo e distante di una campana di una chiesa in un piccolo paesino nascosto tra le montagne. Tutte, o quasi, hanno a che fare con una partenza. Che questa sia verso una destinazione in concreto o figurata, è sempre paragonabile ad un tuffo da un trampolino senza prendere alcuna rincorsa, un’immersione subacquea senza attrezzature complicate, una lunga passeggiata in infradito. Mi ricordano come fosse gettarsi nel mondo, sempre col mio solito fare goffo, a volte frenetico, ma che mi permetteva di assaporare ogni cosa, di annusare i profumi e le puzze nauseabonde, di toccare il fondo per poi risalire.

Ed è con questo spirito che tutte le volte mi sono tuffata: senza prendere precauzioni né misure, senza mai porre distanze. Provavo quasi un senso di inadeguatezza nel farlo. Conoscevo un solo modo di cadere e soltanto uno per rialzarmi. L’improvvisa caduta su una strada appena asfaltata era necessaria per tagliare il traguardo. 

Tuttavia, oggi, riguardando vecchie fotografie a cui inevitabilmente si associano date e quindi ricordi, mi sono accorta che il mio modo di gettarmi nel mondo non è mai cambiato, ma solo quello in cui ne sono uscita ogni volta. Ho sempre continuato a non prendere rincorse prima di tuffarmi da un trampolino, a non portare con me bombole a sufficienza per un’immersione subacquea e nemmeno delle calzature adeguate per passeggiare a lungo. Credo lo abbia fatto sempre di proposito, perché forse sapevo che ce l’avrei fatta comunque. Via via però si è trasformata l’uscita, come fosse una porta d’emergenza la cui insegna continuava a lampeggiare insistentemente, di un colore rosso che via via si faceva sempre più acceso solo perché la porta diventava ogni volta più vicina e più grande. Avevo maggior resistenza a nuotare sott’acqua, a godere delle bellezze marine così come della vista di un paesaggio ad alta quota. Ognuna di queste azioni, pian piano, è durata sempre meno. E talvolta le porte d’emergenza le ho costruite io stessa. 

Oggi ho pensato a tutte quelle porte d’emergenza che avrei potuto evitare di aprire, ma per la prima volta anche a tutti quei tuffi che avrei potuto non fare. E la verità mi ha stupito: mi sono risparmiata parecchi salti solo quando qualcuno con prepotenza mi implorava di non farlo, sono uscita non per insufficienza di attrezzature ma perché trovavo già la porta aperta e mi ci infilavo.

È forse per questo che adesso mi sento a metà, come se in questo mondo, che oggi ha mutato in abitudini e fattezze, non riuscissi a gettarmi per il timore di non poter risalire. Quelle volte che ci ho provato, ho portato con me tutte le precauzioni, anche quelle non indispensabili. Sono riemersa in superficie per tutta quella pesantezza che mi portavo addosso, ma mai per volontà.

Però forse le date che realmente meritano di essere incise sui nostri corpi, affinché le si possa tenere a mente come fossero una routine giornaliera, sono quelle in cui abbiamo scelto di fregarcene. Della ricorsa prima di un tuffo, di portare con noi bombole d’ossigeno a sufficienza prima di un’immersione o scarpe più comode per una lunga passeggiata, come di quanto fosse fastidioso il lampeggiare insistente dell’insegna al neon della porta d’emergenza progettata proprio per svignarcela. Di qualsiasi cosa o persona ci impedisca di tuffarci o ci apra la porta bruscamente. Sono queste le date importanti, perché ci insegnano che dobbiamo essere noi a scegliere quando gettarci così come risalire. Che non possiamo mai recriminarci di non aver preso misure e distanze, perché l’unico modo di conoscere è spremere la vita fino all’ultimo. Che non possiamo recriminarci nemmeno di non avere seguito tutte le precauzioni necessarie, perché dovremmo pensare a sganciarcene strada facendo. Sono queste le date importanti perché ci ricordano di cosa siamo capaci. E la misura di ogni uomo o donna su questa Terra è sempre la stessa: quanto amore siamo disposti a donare, in ogni forma, a noi stessi, agli altri, a questa vita. 

Per questo è importante fregarsene, come fosse una sfida con il mondo il cui unico modo per vincerla è non aver paura di non avere o essere abbastanza. La vita mette e toglie quando occorre, non quando faccia più o meno male, sta a noi decidere di non smettere mai.


martedì 6 ottobre 2020

Come un telo da mare

Con l’arrivo dell’autunno ho messo via un po’ di cose. Ho lavato in lavatrice il telo da mare, l’ho piegato e conservato al suo solito posto. Lo riprenderò il prossimo anno, quando correndo a piedi nudi sulla sabbia in pantaloncini e canotta sarò pronta per lasciarmi dondolare dalle onde del mare e riscaldare dai raggi di sole, ancora una volta.

Ogni cosa gode dei suoi tempi.

Sa già dove e quando deve essere conservata.

Come tante altre, sanno già che prima o poi dovranno essere gettate via.

Non sono brava a disfarmi delle cose, mi ripeto spesso che molte potrebbero tornarmi utili, prima o poi. Ma questa volta ho deciso di conservare solo il telo da mare e tutto quello che gli rassomiglia, ovvero tutto ciò che basta semplicemente scuotere dopo l’utilizzo per rimuovere ogni granello di sabbia che potrebbe appiccicarsi alla schiena la volta dopo.

Ho pensato di conservare cose così, quelle che richiedono cura ed energia, ma mai in eccesso, rispettando i miei spazi ed i miei tempi. 

Ho deciso di fare lo stesso con le persone, tenendo per mano solo chi, con uno sguardo attento e mai una parola di troppo, ha la capacità di trasformare la pioggia battente in arcobaleno, una brutta giornata in un’altra più serena, un terreno arido in uno in cui si possa concimare ed aspettare la bella stagione per la raccolta.

Seguendo questo principio, sono tante le cose da gettar via, più di quelle che immaginassi.

Come le pillole per dormire che adesso non mi servono più, perché ho imparato a respirare lentamente, a non correre, a non aspettarmi nulla da un futuro di per sé incerto, ma a fare un passo alla volta e a seminare, con pazienza, ciò che un giorno mi piacerebbe raccogliere, senza ansia da prestazione.

Ho fatto lo stesso con qualche ricordo diventato troppo ingombrante.

Anniversari che al solo pensiero ti fanno star male.

Fogli di carta su cui un tempo scrivevi delle cose che basta rileggere per capire che adesso sei cambiata rispetto a qualche tempo fa.

Con le persone ho deciso di fare più o meno lo stesso.

Ho scelto di allontanare quelle che non sanno respirare lentamente prima di rivolgerti parola.

Quelle che aspettano già al traguardo, ma a correre o passeggiare insieme a me non ci hanno mai minimamente pensato. 

Quelle che non sono in grado di prendersi cura del proprio terreno e quindi nemmeno dell’altro, perché da quella terra non spunterà alcun bocciolo. 

Quelli ingombranti, che ti rendono la vita un luna park senza alcun divertimento ma solo capriole e luci al neon che dopo un po’ ti danno la nausea.

Quelli che non lasciano che tu cresca, mettendo in luce la parte migliore di te, ma solo quella che non vorresti mai essere.

Mi piacciono le cose come le persone che come un telo da mare porti con te al braccio fino alla spiaggia, e che pur sgualcendosi nel corso della giornata, saranno sempre quelle di cui non potrai fare a meno.

Quelle a cui basterà una scossa o una folata di vento per ripulirle.

Quelle che ti ricordano il mare e lasciano che tu sia esattamente come lui, infinito.

Mi preparo ad un autunno diverso rispetto a quello dello scorso anno, fatto di alberi spogli da rivestire e foglie secche tutte da colorare, di volti opachi da allontanare, di esperienze da imballare in scatoloni che non dovranno essere più riaperti, di anime spente cui comunicare che il tuo lavoro è terminato per poterti prendere cura di te stessa e della tua luce che non dovrà spegnersi mai, a qualsiasi condizione.

Così mi godrò l’autunno senza aspettare l’inverno e l’inverno senza aspettare il profumo dei fiori freschi di primavera. E godrò questi ultimi senza fremere per l’arrivo di una nuova estate.

Ho già soltanto una certezza sino ad allora: che con le infradito malconce, in pantaloncini e canottiera, correrò sino a raggiungere il bagnasciuga. Una volta lì, scuoterò il telo e mi metterò a respirare, lentamente, come sto imparando a fare.

sabato 4 aprile 2020

Racconto breve: Scarpe strette

Atterrai a Dublino nel tardo pomeriggio di una domenica di fine estate. Mi affrettai per andare a recuperare il bagaglio e mi misi in coda per l’autobus, che in poco più di tre ore mi avrebbe condotto a Cork, una piccola cittadina al Sud dell’Irlanda. Il cielo era di un grigio cadetto e la pioggia così sottile da non bagnare nemmeno l’asfalto.  Occupai uno dei primi sedili, accanto ad una donna dalla corporatura robusta che si rannicchiò sul suo fianco destro per tutta la durata del viaggio, costringendomi a appoggiare la testa sul vetro del finestrino alla mia sinistra. 

Ho sempre amato la pioggia, il suo profumo e quell’inconsueta quiete che ne sussegue. Sin da bambina mi piaceva guardare come scorrevano velocemente gli schizzi di pioggia sui vetri delle finestre, immaginando fossero degli spermatozoi che passavano da una parte all’altra del fermavetro. Di questa mia fervida fantasia non ne avevo mai parlato a nessuno. Avrebbero pensato tutti che fosse una delle mie tante stranezze, anche se poi quell’etichetta me la cucirono addosso quasi tutti anche senza sapere delle mie bizzarre fantasie, quando una volta conseguito il diploma decisi di dare un taglio a quella che sino ad allora era stata la mia vita.

“Allora non ti iscrivi all’università?” mi chiedeva insistentemente Daniela, la mia storica compagna di banco delle superiori, a cui ho sempre passato tutti i compiti di inglese e matematica, le uniche due materie in cui ero sempre stata molto più ferrata degli altri.
“No, preferisco fare quest’esperienza all’estero. Magari apprendo l’inglese sul serio, mi trovo un lavoro. Preferisco guadagnare qualcosa”.
Era questa la risposta che avevo dato a tutti, pur percependo in ogni sguardo in cui mi imbattevo un velo di incredulità. Preferivo non farci caso, in fondo non avevo altra scelta.

Non sono cresciuta in una famiglia abbiente. Quando avevo dodici anni la gelateria che aveva preso in gestione mio padre fallì, così mia madre si ritrovò con uno stipendio da segretaria di poco più di mille euro al mese a prendersi cura di me, mio fratello e mia sorella, e a curare la depressione di mio padre.
“Però pigli troppi caffè e fumi assai Stefano”, mia madre rivolgendosi a mio padre.
“E c’aggia fa’ Rosà?”
“Vai a dare un poco d’acqua alle piante e porta fuori i cani”.

All’inizio pensavo che mia madre lo sgridasse. Forse, per non essersi preso cura abbastanza della sua famiglia. Poi capii che quello che sembrava fosse un ordine era l’unico modo che conosceva per spronarlo a non lasciarsi andare. Capii che spesso mia madre utilizzava quei modi bruschi per insegnare a me e ai miei fratelli ad essere responsabili. Intanto lei aveva imparato a gestire l’imbarazzo magistralmente. Come quando mia zia veniva a portarci la spesa e buste piene di vestiti che le mie cugine non indossavano più.

“Marì e mò tutta sta roba dove la metto?” mia madre, rivolgendosi a mia zia con tono di rimprovero.

“E te li conservi per quando cresce”.

“Vieni qua Claudia, misura qualcosa”.

Anche se le scarpe mi stavano strette o le maglie troppo larghe, mia madre era sempre in grado di trovare una soluzione.

“Questo vestito ti sta bene Claudia, poi mamma te lo stringe un poco.”

“Guarda qua pure sta felpa, quest’anno ti rimbocchi le maniche, per l’anno prossimo ti andrà giusta”.

Quando anche mia madre venne licenziata qualche anno più tardi, capii che avrei dovuto mettere in pratica tutto quello che mi aveva insegnato e che sarei stata io stavolta a trovare una soluzione.

Comunicai ai miei l’intenzione di andar via per un po’. Acquistare un biglietto di sola andata rappresentava un’arma a doppio taglio dietro cui si celava un po’ di sano egoismo che mi avrebbe consentito di riaproppriarmi di quello che mi era sempre mancato e conquistare la mia indipendenza, così come un innato altruismo nei confronti dei miei genitori per ripagarli di tutti i loro sacrifici.

“Ma tu si piccerell, arò vaje?” mi disse mia madre.

“Mà ho diciannove anni. Mi trovo un lavoro, là pagano bene, vi mando qualcosa”.

“No figlia mia. Lascia stare”.

“Rosà, lassà sta tu. Se vuole andare, va buon accussì”, la interruppe mio padre, il quale sembrò non batter ciglio di fronte alla mia decisione.

Così mia madre mi aiutò a preparare le valigie, lasciando spazio in ogni angolo per qualche pacco di pasta e di caffé.

“Portati pure questo piumone.”

“Mà dove lo metto? Non c’è spazio. Poi me lo compro, non ti preoccupare”.

“Claudia là fa freddo. Te lo faccio entrare io, aspetta”.

In un modo o nell’altro, mia madre trovava sempre una soluzione. Così riuscii a portare con me anche il piumone.

“E mò quando torni?” mi chiese prima di salutarmi in aeroporto.

“Mà non lo so”.
Girai le spalle senza voltarmi. Non volevo vederla piangere. L’ho sempre fatto, tutte le volte che tornavo, perché col tempo ho capito che forse una madre non si abitua mai a vedere andar via un proprio figlio.

Venni assunta da Amazon e riuscii a mettere un bel po’ di soldi da parte, oltre ad inviare ogni mese una cospicua somma ai miei, il che mi fece credere per un bel po’ che avessi finalmente costruito una vita, la mia, degna di essere vissuta. Ogni cosa che profuma di libertà ha il suo prezzo da pagare, e credevo che quello fosse il mio: poco più di cinquecento euro al mese.

“Grazie Claudia, poi ti mando un pacco a fine mese”.

“No, mamma, non mi serve niente”.

“Come non ti serve niente? Non ti preoccupare, ho cominciato a pulire la casa della signora Carmela, quella che abita di fronte. Ha detto che ha altre signore da presentarmi”.

“Mi fa piacere”.

“Ascolta che ti serve?”

“Mà te l’ho detto, non mi serve niente”.

“Io ho due frullatori, uno te lo mando, può sempre servire. Poi ascolta, ti mando pure le tende così le metti nella tua stanza”.

“Le tende? Non ti preoccupare, non mi spedire niente”.

“Allora quando vieni te le porti in valigia. A proposito, quando torni?”

Le telefonate tra me e mia madre si concludevano sempre con la stessa domanda cui io davo quasi sempre la stessa risposta: “Presto mamma”, anche se talvolta voleva dire il prossimo mese, altre volte entro sei.

Prima di partire mi documentai su Cork, la città natia di un professore con cui avevo seguito un corso d’inglese ai tempi delle superiori. Decisi di trasferirmi in quella cittadina di poco più di 120.000 abitanti spinta dai suoi racconti sulla bellezza incontaminata dei suoi paesaggi. Poco dopo però mi resi conto che non aveva molto da offrire ai giovani della mia età, a parte lavori strapagati rispetto a quello cui ero abituata.

Durante quei tre anni in Irlanda mi sono fatta degli amici, ma mi sono anche abituata a vederli andar via. All’inizio cadevo in un profondo sconforto, poi col tempo ho imparato a lasciarli andare, mantenendo solo i ricordi. Nessuno voleva rimanere lì per sempre e man mano questa divenne una certezza anche per me.

Oggi sono su un altro autobus, quello che dall’aeroporto El Prat di Barcellona mi fermerà a Plaça Cataluñya, il punto di partenza da cui le mie scarpe, questa volta della mia misura, cominceranno a calpestare un asfalto diverso, come quello di viuzze strette che portano al mare. Come mi mancava, il mare. Non potrò di certo spedire ai miei conchiglie, pensai. Troverò un lavoretto e continuerò ad aiutarli, come potrò, la fortuna aiuta gli audaci, diceva sempre mia madre. Nel mio bagaglio avevo imparato a farci entrare tutto, proprio come faceva lei, compreso il piumone. Questa volta, però, i sensi di colpa li avevo lasciati dietro le spalle di quella ragazzina ingenua che indossava scarpe strette e che rimboccava le maniche alla felpa, perché tanto l’anno successivo le sarebbe calzata a pennello.

Quel tempo mi servii per apprendere una lezione che altrimenti mi sarebbe stata sconosciuta: che la libertà ha spesso il sapore di cose semplici ed il suono di quelle che avevamo rimosso dalla nostra mente, come il rumore delle onde del mare. Che quando pensavamo di possedere le chiavi per inseguire la nostra libertà, stavamo invece aprendo la porta di quella che sarebbe stata la nostra prigione. E che nessuno si salva da solo, ma chiunque ha il diritto di salvare dapprima se stesso.

giovedì 19 marzo 2020

Essere umani ai tempi del COVID-19

In queste settimane di quarantena forzata abbiamo trovato più tempo per noi stessi e al contempo anche per gli altri. In poche parole, credo che in circostanze a dir poco surreali, stiamo allo stesso tempo gettando le basi per la creazione di un mondo ideale, a patto che, quando tutto questo sarà finito, saremo in grado di ricordarcelo e mantenerlo intatto.

Abbiamo ricominciato tutto quello che avevamo lasciato in sospeso, stiamo dedicando del tempo a tutto quello che avremmo sempre voluto fare ma che abbiamo rimandato non solo per mancanza di tempo, forse più di costanza.

Avvertiamo la necessità di metterci in contatto più spesso con i nostri cari, anche solo per sapere se hanno fatto un colpo di tosse nelle ultime 12 ore.

Sentiamo il bisogno di metterci in contatto anche con chi avevamo dimenticato, o con chi speravamo di cancellare dalle nostre vite. 

Colmiamo distanze con tante parole, al solo scopo di sentirci presenti seppure da lontano e di avvertire la vicinanza dell’altro. 

Ci auguriamo di abbracciarci e baciarci presto, più forte di quanto facessimo fino a qualche settimana fa. 

Sentiamo il bisogno di organizzare raduni telematici, perché abbiamo scoperto l’importanza dello stare insieme anche senza toccarci, guardandoci negli occhi sebbene ci sia uno schermo a separarci. 

Credo avessimo bisogno di tutto questo, quasi come fosse una lezione di vita per l’intera umanità che recita più o meno così: non dobbiamo aspettare che ci vengano negate le nostre libertà per dedicare del tempo a noi stessi e a chi amiamo, anche di nascosto, perché  se è vero che talvolta il tempo aiuta a curare ogni ferita e allontana, altre volte riconcilia.

Non possiamo rimandare, perché ci sarà sempre tempo a sufficienza per porre le basi per inventare e costruire, per essere chi, un tempo, avevamo scelto di diventare.

Non dobbiamo aspettare che accadano circostanze fortuite per ricordarci quanto ci amiamo, quanto abbiamo bisogno l’uno dell’altro, quanto ci sta a cuore chi lì dentro, in fondo, ha sempre albergato.

Non dobbiamo aspettare di essere distanti per raccontarci tutto quello che proviamo o che desidereremmo fare, come prenderci per mano e correre sul bagnasciuga sino a cadere con le ginocchia sulla sabbia e ridere di gusto, sino a lacrimare. 

Dobbiamo trovare il coraggio di perdonarci e perdonare, prima che il tempo consumi i nostri sensi di colpa. 

Dobbiamo avere il coraggio di viverla questa vita, non oggi che siamo distanti, ma domani, quando saremo vicini, urlandoci a squarciagola tutto quello che proviamo, stringendoci fino a toglierci il fiato, baciandoci come se non lo avessimo mai fatto prima. 

In fondo sono queste piccole forme d’amore che salvano la vita, la nostra e quella di chi ci è accanto.

Quando tutto questo sarà finito, manteniamolo intatto questo mondo virtuale, fatto di quelle carezze che ora più che mai desidereremmo scambiarci, di tutte quelle parole che non avremmo voluto pronunciare, di tutto quell’amore che non sapevamo forse nemmeno di provare.

Occorre ricordarcelo più spesso. Per sempre. Che ci serva da lezione.

domenica 21 luglio 2019

Londra-Barcellona, solo andata

Seduta su un muretto a bere una lattina di birra fredda, con gli occhi fissi sull'insegna di un supermercato con la saracinesca abbassata a metà. Profumi poco distinguibili nell'aria, spazzati via di colpo da una leggera brezza estiva. Il cigolio delle sedie di plastica trascinate in strada e posizionate in circolo, come un'abitudine che sa di estate, di voglia di stare insieme, tra lo schiamazzo dei bambini ed il rumore di un pallone lasciato rimbalzare in strada.

Sarà questa la prima immagine che porterò con me quando penserò al viaggio di sola andata dalla terra d'Albione al capoluogo della Catalogna.
Con uno sguardo perso di chi non contempla il vuoto, ma che cerca di mettere insieme tutti i punti di un percorso lunghissimo, per ricordare come sia potuto accadere che sia stata concessa proprio a me l'opportunità di ricominciare una nuova vita altrove, dove le strade più strette, le distanze 'meno distanti' ed il mare visibile non soltanto in cartolina una settimana all'anno, siano in grado di farti sentire meno piccolo e se forse pur sempre un numero, questa volta perlomeno a due cifre.
Quell'altrove che diventava sempre più irraggiungibile, mentre vivere seguendo uno schema macchinoso una di quelle abitudini insane di cui poi ad un certo punto non riesci a farne a meno.

Così, proprio quando mi stavo perfezionando nel triplo salto nel vagone affollato di una metropolitana in partenza al punto da suggerirlo come nuova disciplina olimpica e candidarmici certa di conquistare almeno una medaglia d'argento, proprio quando le corse pesavano meno, così come gli scatoloni del terzo trasloco in pochi mesi, e proprio quando Brexiful veniva addirittura superato dal Pratiful in quanto a dinamiche da soap opera, è suonata la sveglia.
È sempre accaduto tutto così, nella mia vita. O almeno, dicono che le cose belle succedono quando non le stai più cercando, ma solo quando non lo fai più sul serio, non per finta.


La mia vita è sempre stata il trasloco peggiore che io abbia mai fatto in termini organizzativi: non riesco a gettare nemmeno un cesto in vimini.
Così per settimane ho immaginato in che modo sarebbe cambiata la mia vita, e forse anche io, da cosa partire, cosa lasciare alle spalle.
Poi ad un certo punto ho capito che il cambiamento repentino sarebbe stato pieno del nulla, che avrebbe puzzato di finzione, e che pianificarlo mi sarebbe stato impossibile.
Le incertezze sono belle proprio perché ne si può conoscere una parte giorno dopo giorno, scrivendole al contempo non per deviarne il suo corso, ma per renderle più autentiche e conformi alla vita che abbiamo scelto per noi.

Così, sarebbe stato inumano e privo di cuore gettare tutto per ricominciare.
Delle tante vite vissute finora ho deciso di non buttare nulla, se non i sensi di colpa.
Ho deciso di fissare una saracinesca abbassata a metà, come a prendere il mio tempo per riassettare tutto ed immaginare tutto quello che è possibile creare.
Di lasciarmi scompigliare i capelli da una leggera brezza estiva, ma decidere sempre io se lasciarmici trasportare o restare dall'altra parte.
Di non lasciare che siano gli eventi a cambiare me, ma di cambiare marcia quando necessario.
Di ascoltare il cuore quando lo sento battere forte.
E di custodire ed alimentare quel desiderio sempre presente di creare una nuova casa, con i gerani sul balcone, le tende colorate e un paio di fotografie appese al muro.
Una di quelle in cui ti ci senti al sicuro, perché é calda abbastanza e piena di sorrisi reali.
Anche qui partirò dai dettagli, su cui costruire o demolire.

La mia unica promessa è quella di assorbire tutto il bello che possa far diventare il mio cuore sempre più grande, mantenendo insieme ciò che è stato, che è e che sarà, riconoscendo a ciascuna la stessa importanza.
Perché di me e della mia vita non getto nulla. E nemmeno il cesto in vimini: può sempre servire.


domenica 24 febbraio 2019

Arriverà la primavera


Penso spesso alle persone come fossero treni, mentre a quei pezzi di vita che su di loro prendono forma come fossero stazioni.
Come quelle in un piccolo paese di provincia, in cui ti tocca sostare su di una panchina, spesso più del dovuto. 
Come quelle in cui attenderai invano, prima di capire che il transito è stato sospeso, a data da destinarsi.
O come quelle di grandi metropoli, in cui i treni sono sempre puntuali ma sarai tu ad essere spesso in ritardo, così da dover correre sino a sudare la fronte mentre sgomiti i passanti.

Non sempre riesci a salire, perché il treno potrebbe non fermarsi in tempo, o perché, talvolta, avrai scelto tu di non farlo.
A volte avrai un posto a sedere riservato accanto al finestrino.
Altre, sarai in piedi tra la folla che si lamenta della carenza dei servizi.
Altre, invece, potrai accomodarti per caso, senza aver pianificato nulla in anticipo, rimanendo sorpreso da come, quasi sempre, la mancanza di piani è garanzia di un servizio migliore di quello che avevi previsto.

Pagherai sempre un prezzo per salire su uno di quei vagoni, che ti sembrerà tanto più alto quanto ad esserlo saranno le tue aspettative, le tue possibilità, i tuoi sogni.
Pagherai un pezzo del tuo tempo, delle tue energie, una porzione della vita che avevi vissuto sino a quel momento, di te stesso.

E arriverà il freddo invernale, che poi cederà il passo al vento primaverile, poi all’afa estiva, sino alle foglie ingiallite dell’autunno, per poi arrivare di nuovo l’inverno.
Così, proprio come passano le stagioni, passeranno nuovi treni, in diverse stazioni.
Passeranno le persone, proprio come passerai anche tu.

Pensavo di essermici quasi abituata.
Ai treni che passano, una volta soltanto.
Alle attese, vane o più lunghe del previsto.
Alle corse per salire in tempo.
A restare in piedi tra la folla o seduta ad un posto riservato accanto al finestrino.
Alle porte che ti si chiudono in faccia.

A salire su di un treno qualsiasi fermandomi in ogni stazione, prima di decidere quale fosse quella giusta dove sostare, segnandola come meta finale del viaggio che avevo scelto di fare.
A capire che le mete prefissate non saranno sempre quelle definitive, e nemmeno sempre quelle giuste, così da importi di rimettere lo zaino in spalla e salire su un nuovo treno che avrà una diversa destinazione.
Pensavo di essermi abituata, a saltare di stazione in stazione, guardando a ciò che sarà e non a ciò che è stato, anche ai saluti, lunghi, intensi, frenetici e di rito.
Alle persone che passano, e a me, che passo insieme a loro.

Ho capito che a tutto questo non ci si abitua mai abbastanza e che sarà questo il prezzo più alto da pagare, seppure il più bello, perché in fondo ci rispecchia.

Il nostro sarà sempre un biglietto di sola andata per un viaggio in cui sarà quasi irrilevante la comodità e quanto gli altri avranno da offrire, perché conta quello che ti porti dentro.
È un itinerario che stabiliremo noi, stazione dopo stazione, senza fretta di arrivare, ma godendo di ogni tappa come se fossero pezzi di un puzzle che in principio sembreranno non avere alcun punto di incontro, per poi congiungersi perfettamente, soltanto alla fine.

Credo ci si possa abituare solo quando guardi tutto dal finestrino, senza mai fermarti o porti domande, quando guardi ad un treno come un mezzo ed ad una stazione come un fine.
Ed invece, anche quando avevo giurato di smettere, ho capito che non smetterò mai, lo trovo più autentico.

Così mi camufferò sempre da esploratrice inesperta, guardando ogni treno come fosse un posto da scoprire ed il cancello di ogni stazione come fosse la porta di casa, o semplicemente di un luogo sicuro dove temporaneamente sostare.
Sbaglierò ma imparerò e forse, alla fine, sarò anche in grado di insegnare qualcosa.
Sentirò il rumore dei passanti ed il cigolio dei binari.
La brezza di un vento sottile che attraverso un finestrino aperto a metà ti scompiglia i capelli.
Avrò sempre la sensazione di aver gettato un pezzo di vita, ogni volta, prima di comprendere di averne guadagnato il doppio, con un cuore che man mano diventerà sempre più grande perché ci porterai dentro ogni luogo in cui avrai sostato ed ogni schienale su cui ti sarai poggiata.

Il nostro privilegio sarà quello di iniziare un diario, diverso per ogni destinazione.
Perché in fondo la vita è come un quaderno dalle pagine bianche che inizia con l’incontro tra l’inchiostro e la carta. Forse non ci si sente mai pronti abbastanza, ma il lusso che possiamo concederci è quello di cominciare da zero, seguendo le righe che la nostra immaginazione avrà disegnato per noi, strappando quelle che non ci piacciono e ripartendo da capo: da una pagina bianca.

Il bianco sembra uno spazio da riempire, privo del necessario, come una stanza vuota senza mobili. Invece, alla fine, è il punto in cui convergono tutti i colori. È l’essenziale di cui abbiamo bisogno. È il punto di partenza che ci fa sentire nostalgici, ma pieni e vivi.

E alla fine arriverà di nuovo la primavera.
Avrà il colore dei tuoi occhi.
Il profumo della tua pelle.
La bellezza di un tramonto in riva al mare.
La semplicità di un arcobaleno.

domenica 6 gennaio 2019

Con il piede all'insù


L’altro giorno ero seduta in metropolitana accanto ad un uomo che sfogliava un libro sul linguaggio del corpo, “What your body says”.
Ho immaginato che si addicesse perfettamente ad un luogo come quello, dove il materiale umano da analizzare non è mai abbastanza e lascia spazio alla più fervida delle immaginazioni. Più che i loro corpi, mi piace fantasticare sulle loro storie: chi sono, dove sono diretti, cosa desiderano quando mettono la testa sul cuscino prima di addormentarsi?

Tuttavia, credo che quell’uomo sedutomi accanto non la pensasse come me. La sua attenzione era rivolta ad un’immagine di una donna con le braccia conserte e con la punta del piede rivolta all’insù. Sbirciando con la coda dell’occhio, ho letto nella descrizione che la punta del piede rivolta verso l’alto è un buon segno, significa che alla persona in questione piace ciò che sta ascoltando, si sente a suo agio.

Facile intuire quale fosse lo scopo di un uomo sulla quarantina quando ha acquistato un libro del genere, ma forse questa potrebbe essere un’altra storia: quella in cui la punta del piede rivolta verso l’altro diventa un’inconsueta pratica d’adescamento. O forse, è semplicemente quello ho voluto immaginare io, complice lo scarso sonno ed il rientro dalle vacanze natalizie che mettono sempre di cattivo umore.

Se a stilare la lista dei propositi del nuovo anno fossi tanto brava quanto a costruire castelli in cui farci abitare principi, principesse, fate e streghe cattive, probabilmente a quest’ora ne avrei già una e ne avrei almeno portato a compimento un paio. La verità è che però io e le liste abbiamo sempre avuto un rapporto conflittuale: è come se la vita ad un tratto si accorciasse, come se una porzione si presti a diventare necessariamente funzionale ad un’altra successiva. Non esistono parentesi, né punti, ma solo tante virgole. Come quando si legge un testo lunghissimo privo di punteggiatura e solo alla fine potrai tirare un respiro di sollievo, perché lo hai portato a termine.

Ho sempre preferito immaginare castelli che stilare liste: perché nei luoghi che la tua fantasia è in grado di disegnare sei libero ed il tempo non diventa un nemico da sfidare, perderesti in partenza. Diventa un compagno di viaggio, pronto a coccolarti quando la tua pazienza vacilla, ma anche a tirarti sberle quando ti dici stanco nel proseguire.

In quel castello fai entrare chi vuoi, forse chiunque, ma manterrai sempre la porta socchiusa perché non ti piace trattenere con forza chi non vorrà più farne parte. E alla fine andrai avanti lo stesso, senza mai rimpiazzare nessuno, perché ogni porzione di vita avrà avuto il suo senso, lì ed allora. Imparerai a rigenerare, te e ciò che ti circonda, perché quel castello non diventerà mai una prigione.

Immaginare castelli che non fossero costruiti con la sabbia ma che avessero pareti più spesse così da sembrare robusti come una qualunque lista è quello che ho fatto quest’anno: non sentirsi rinchiusi in un limbo con le gambe a mezz’aria, ma mantenere i piedi ben fermi sul selciato, così da potermi indicare una via da seguire. Non ha mai fatto parte di una lista di propositi, l’ho imparato strada facendo, non tralasciando alcuna via alternativa.

Se oggi qualcuno mi chiedesse di farmi un augurio, probabilmente sarebbe quello di concedermi qualche momento in più in cui rimanere a braccia conserte con la punta del piede rivolta all’insù. E questo non di certo per rimorchiare uomini in metropolitana che acquistano curiosi manuali per camuffare la scarsa abilità nel relazionarsi a qualcuno.

Mi auguro di provare piacere nell’ascoltare, di sentirmi a mio agio, in un castello aperto a chiunque, in cui farci restare solo chi conta.
In cui non esistono ritardi, ma semplici attese.
In cui spendere tempo in egual misura, per correre verso qualcosa, e per aspettare che qualcosa riesca a raggiungere te.
Quel castello in cui si nascondono sentieri che percorrerai silenziosamente e che d’un tratto ti imporranno di svoltare.
Quelli che dietro l’angolo nascondono piazze di piccole dimensioni, dove sentirai lo schiamazzo di bambini che giocano, il profumo del caffè, il rumore delle onde del mare.
E saprai già che dovrai sostare su di una panchina a caso, così da riuscire a farti entrare tutto dentro.
Non aspetterai che qualcuno, in quel castello, venga a salvarti, perché sarai in grado di farlo da sola. L’hai fatto tante volte ed ogni volta sapevi che non sarebbe stata l’ultima.

Per questo odi le liste, i resoconti ed i buoni propositi.
Preferisci tuffarti e cogliere l’inaspettato.
Quello che alla fine ti fa amare il tragitto che hai deciso di intraprendere e che ti sprona a sognare, sempre più in grande.